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UniCredit e BoT, la lunga rincorsa

di Nicola Borzi

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6 dicembre 2008

«Oltre i BoT, i Credit. Slogan di grande ambiguità, nella misura in cui avvicina le azioni del Credito Italiano ai BoT. Che cosa hanno in comune?», chiedeva Gustavo Minervini sul «Corriere della Sera» del 26 gennaio 1994 a commento della prima privatizzazione nazionale. A 15 anni da quello spartiacque l'Italia non è più terra di "BoT people" e "foresta pietrificata" – disboscata totalmente dal 1992 al 2003, con la quota delle banche pubbliche sugli attivi del sistema creditizio passata da 74,5% a zero –, ma la domanda torna attuale. Il tonfo delle Borse riporta a livelli comparabili i rendimenti dell'ex Credit e dei BoT, in precedenza a distanze stellari.
Se 15 anni fa fossero stati disponibili gli Etf, chi avesse investito 100 euro (193.627 lire dell'epoca) in un Exchange traded fund total return sull'indice Comit di Borsa italiana oggi ne avrebbe 253,61. Chi ha acquistato alla privatizzazione i titoli Credit reinvestendone i dividendi da 100 euro ne ha 251,22: meno di un quarto rispetto ai massimi raggiunti ad aprile 2007. Chi avesse scelto BoT annuali avrebbe 215 euro, mentre un ipotetico Etf total return sull'indice Msci in euro delle Borse mondiali avrebbe reso quasi 176 euro. Rendimenti nominali non corretti per il rischio: dunque è chiaro che, ai corsi odierni, i Credit hanno perso la corsa con i BoT.
Alla privatizzazione il Credit valeva in Borsa 1,81 miliardi di euro. Oggi la capitalizzazione di UniCredit, circa 22 miliardi, è tornata ai livelli del '99 quando il gruppo era costituito solo da Credit, Rolo, CariVerona, CassaMarca e CrTorino. Assai più piccolo del gigante di oggi, cresciuto con l'acquisizione di Pioneer Investment nel 2000, l'Opa del novembre 2005 sulla tedesca Hvb e l'aggregazione del 21 maggio 2007 con Capitalia, realizzate dal capoazienda Alessandro Profumo. Il Credit, fondato nel 1870 e quotato dal 1895, nel 1993 era il settimo gruppo nazionale. L'Iri, guidato da Romano Prodi, ne possedeva l'81,4%, con il resto in mano a 40mila piccoli azionisti. Con l'Opv e il private placement varati il 3 dicembre 1993 l'Iri cedette 840 milioni di titoli a 1,072 euro l'uno, a sconto sia sui corsi (1,193 euro) che sul patrimonio netto per azione (1,476 euro). Sconto che portò sì al Tesoro, diretto da Mario Draghi, 930 milioni di euro lordi, ma sollevò anche non poche polemiche. Sul mercato andava una banca sana, con bilanci in crescita oltre la media del settore: patrimonio netto di 2,36 miliardi di euro, attività per 51,6 miliardi, utile netto al 30 giugno 1993 di 69 milioni (107 a fine 1992).
La campagna di marketing fu storica quanto l'operazione. Scesero in campo personalmente il presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, e il ministro del Tesoro, Piero Barucci, con un opuscolo di 28 pagine illustrato da Emilio Giannelli, vignettista del "Corriere della Sera". Il collocamento fu realizzato dagli 800 sportelli del Credit e da un maxi-consorzio di 96 banche. Degli 840 milioni di titoli 475 andarono al retail, al private placement per gli istituzionali 312,46 e altri 52,54 alla bonus share: un'azione ogni 10 andò a chi tenne i titoli per tre anni. I "BoT people" risposero in massa (l'oversubscription dei risparmiatori fu di sei volte), ma solo 190mila domande su 292.220 ricevettero il lotto minimo di 2.500 azioni.
L'operazione Credit fu la prova generale di tutte le privatizzazioni che riscossero un successo crescente di pubblico. L'Italia, colpita da Tangentopoli e dalle autobombe a Milano Roma e Firenze, non poteva steccare alla prima: i proventi delle privatizzazioni sarebbero serviti per risanare i conti pubblici e favorire l'entrata nell'euro. E l'Italia non steccò.

nicola.borzi@ilsole24ore.com


La corsa al titolo
(Richiedenti dei titoli privatizzati tra il 1993 e il 2001)



(Fonte: ministero del Tesoro, Libro bianco sulle privatizzazioni, 2001)

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